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Pericardite e versamento pericardico
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Antonio Brucato, Giovanni Brambilla,
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Anna Maria De Biase
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Dal libro:
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Manuale di
terapia cardiovascolare,
seconda edizione
Coordinatore Stefano Savonitto
Il Pensiero Scientifico Editore
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PREMESSA
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Recentemente sono stati pubblicati alcuni trial che
hanno finalmente fatto luce in quella che era una tipica “area
grigia” della medicina.
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I suggerimenti terapeutici di cui tratteremo si
concentrano sulle due situazioni che più frequentemente pongono
problemi pratici, vale a dire le pericarditi acute recidivanti e i
versamenti pericarditi “idiopatici” riscontrati occasionalmente.
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PERICARDITI ACUTE
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Diagnosi
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Non esiste una definizione univoca e accettata da
tutti di pericardite acuta.
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Verrà qui considerata una patologia acuta, fortemente
infiammatoria, caratterizzata da: dolore caratteristico, modificato
dalla posizione e dal respiro, alterazioni elettrocardiografiche,
alterazioni ecocardiografiche (possibili, ma non obbligatorie, e
spesso aspecifiche), possibile presenza di sfregamento pericardico.
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È invariabilmente presente un aumento della VES e
degli altri test di flogosi (ad esempio, PCR), spesso in un contesto
di sintomi sistemici di accompagnamento (ad esempio, febbre) e
leucocitosi
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neutrofila. Di tutti questi elementi, quelli più
importanti ai fini della diagnosi sono il dolore (se tipico), l’ECG
e l’aumento di VES e PCR. È importante sottolineare che tale
definizione
non
comprende quindi situazioni di significato molto
dubbio quali la presenza di dolori toracici fugaci e atipici per
angina, accompagnati dal riscontro ecografico occasionale di un
modesto versamento pericardico.
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Eziologia
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Le pericarditi acute hanno in teoria molte cause
(infettive, immunologiche), ma in pratica sono idiopatiche (cioè
senza causa riconoscibile) nella maggioranza dei casi.
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Le
possibili eziologie
da valutare inizialmente sono (Tabella 33.1):
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1.
Connettivite
(lupus eritematoso sistemico, sindrome di Sjogren e
altre).
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2.
Neoplasia.
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3.
Infezioni virali.
Difficili da accertare e da escludere.
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4.
Infezioni batteriche atipiche.
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5.
Tubercolosi.
Da sospettare sempre, soprattutto nei casi più spinosi e soprattutto
se il paziente è in terapia steroidea.
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Gli esami diagnostici comprendono:
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•
intradermoreazione alla tubercolina
(5 U di PPD), leggendo poi la reazione a 24, 48 e 72
ore, non in termini di positività/negatività, ma valutando
semi-quantitativamente il diametro dell’area di eventuale
infiltrazione;
-
•
ricerca del BK in tutti i liquidi biologici
(escreato, sangue, urine, feci), con tutte le
metodiche disponibili (esame microscopico, colturale, e con metodica
PCR);
-
•
TAC del torace,
che se normale è in contrasto con la possibilità di un’infezione
tubercolare in atto.
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Va ricordato però che la diagnosi di tubercolosi, in
linea teorica, non può mai essere del tutto esclusa: anche la
ricerca del BK nel liquido pericardico risulta infatti positiva solo
nel 50% dei casi di TBC pericardica.2 È allora molto importante
valutare sia l’evoluzione clinica sia il tipo di terapia:
-
•
evoluzione clinica:
episodi acuti anche violenti ma che vanno incontro a una completa
risoluzione del quadro, salvo poi ripresentarsi mesi più tardi,
escludono una TBC, mentre un versamento torbido che tende ad
accumularsi, con fasi cliniche di alti e bassi, deve sempre molto
insospettire;
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TABELLA 33.1
- PERICARDITE ACUTA: PRINCIPALI EZIOLOGIE DA
ESCLUDERE
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SOPRATTUTTO NELLE FORME RECIDIVANTI, CON I
RELATIVI TEST DIAGNOSTICI
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(ANAMNESI ED ESAME OBIETTIVO SEMPRE FONDAMENTALI)
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Connettiviti e malattie reumatiche
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(LES, Sjogren, gotta, ecc.)
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ANA, anti-DNA, anti-ENA, RA test,
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Waaler Rose, urato
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Neoplasie
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TAC torace
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Virus
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Anti-coxsachie, anti-ECHO,
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anti-Parvovirus IgG e IgM
|
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Batteri atipici
|
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Anti-legionella, anti-mycoplasma,
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anti-chlamidie, Widal-Wright e
anti-rickettsie
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Tubercolosi
|
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Intradermoreazione alla tubercolina (5 U di
PPD), TAC torace, coltura BK nei campioni biologici o
ricerca DNA con metodica PCR
|
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•
tipo di terapia:
se il paziente non assume steroidi si può tenere un atteggiamento di
sorveglianza e di attenzione “routinario”, mentre se il paziente
assume steroidi tutta l’evoluzione clinica di un’eventuale TBC sarà
falsata e potenzialmente molto più preoccupante.
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6.
Forme post-pericardiotomiche
e sindrome di Dressler. Una pericardite acuta può
essere provocata da lesioni ischemiche o chirurgiche del pericardio
(comprendenti anche forme post-procedure invasive quali cateterismi
e impianto di pacemaker). Preme qui sottolineare che tali
pericarditi sono malattie acute fortemente infiammatorie, che si
verificano dopo 2-3 settimane dall’insulto iniziale. Cosa diversa è
un versamento pericardico in evoluzione ma presente sin dal momento
dell’intervento chirurgico.
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In linea generale nelle fasi iniziali di una
pericardite acuta andranno escluse una connettivite, infezioni,
soprattutto la TBC, e tumori.
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Una volta escluse tali patologie (cosa che avviene
nella maggioranza dei casi), non ha più senso poi procedere nella
ricerca ossessiva e continua dell’eziologia.
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Terapia della pericardite acuta
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La gestione della pericardite acuta, di per sé, non
sarebbe un particolare problema se non sussistesse la
tendenza a recidivare
nel 15-30% dei casi. Qualunque sia stata la causa
iniziale, le successive recidive, in assenza di un’evidente malattia
sistemica che le possa giustificare (ad esempio, sindrome di Sjogren
o altre connettiviti, TBC, ecc.), si presentano sempre come
idiopatiche.
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La Società Europea di Cardiologia ha recentemente
pubblicato delle linee-guida anche sulla terapia di questa malattia,
a cui ci rifacciamo, con alcuni commenti basati sulla larga
esperienza del nostro centro1,3 (Tabella 33.2). La terapia del primo
episodio di pericardite acuta è simile a quella delle eventuale
recidive, ma sul piano psicologico il problema si fa sempre più
spinoso a mano a mano che le recidive si susseguono, con sempre
maggiore “disperazione” da parte del paziente e “imbarazzo” da parte
del medico.
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FANS
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Tutti concordano che si debba iniziare con i farmaci
anti-infiammatori non steroidei (FANS).1,3-5 Il problema è quale
farmaco e a quale dosaggio.
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I testi americani suggeriscono l’acido
acetilsalicilico
a
dosaggio però molto elevato:
4-6 g/die.
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È osservazione condivisa che tali dosaggi non vengano
in genere tollerati dagli europei: da ciò deriva l’impiego di tale
farmaco a dosaggi sostanzialmente più bassi (ad esempio, 800 mg x
2-3 /die).
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L’effetto anti-infiammatorio di tali dosaggi è però
nettamente inferiore, e le linee-guida europee non raccomandano tale
farmaco.1 Vengono quindi utilizzati altri farmaci, ma di nuovo
spesso a dosaggi del tutto insufficienti per esplicare una valida
azione anti-infiammatoria.
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In pratica conviene utilizzare FANS meglio tollerati
e a dosaggi adeguati:1,3-5
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•
Indometacina
50 mg x 2 o 3 volte al dì (raggiungendo la dose
massima per os di 150 mg in 2-3 giorni, per ridurre eventuali
effetti collaterali), oppure 100 mg x 2 e.v.
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• Alternativamente si può utilizzare
ibuprofene
1200-1800 mg/die (prima scelta per le linee-guida
europee e per Uptodate)1,4 o
diclofenac
150-200 mg/die (per os, o in supposta, o i.m.).
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• In casi meno impegnativi funziona bene anche la
nimesulide
alla dose di 100 mg x 2 al dì.
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Possono comunque essere utilizzati anche
altri FANS,
purché
ai massimi
dosaggi raccomandati.
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TABELLA 33.2
- TERAPIA DELLA PERICARDITE ACUTA (DOSAGGI
GIORNALIERI)
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FANS
(a dosaggio pieno e associati a “gastroprotezione”)
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Indometacina: 100 mg x 2 e.v. o 50 mg x 2-3
per os
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Ibuprofene 1200-1800 mg
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Diclofenac 150-200 mg/die
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ASA (dosaggio?)
|
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Steroidi
(es. prednisone 25-50 mg)
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Solo in casi realmente non responsivi a dosi
adeguate e prolungate di FANS. Riduzioni successive di
dosaggio molto lente (mesi), senza riaumentare il dosaggio
in caso di recidiva
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Colchicina
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Sia nel primo attacco sia nelle recidive
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Da aggiungere a FANS ed eventualmente agli
steroidi.
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Per migliorare la tolleranza iniziare con 0,5
mg/die
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per 7 giorni e poi aumentare a 1 mg/die
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Non procedere con alcuna riduzione di terapia se la
malattia non è del tutto quiescente, con VES e PCR normali
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Una recidiva non implica un nuovo ricovero
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N.B.: Questa terapia è efficace nelle vere
pericarditi acute, con VES e PCR alte; non è efficace in casi di
dolori toracici aspecifici con VES e PCR normali, né in versamenti
pericarditi cronici, sintomatici o asintomatici, con VES e PCR
normali.
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Durata della terapia con FANS
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Non esistono indicazioni condivise. Noi raccomandiamo
di proseguire con tale terapia, a dosaggi elevati, almeno fino a che
ogni segno di infiammazione clinico o di laboratorio (VES e PCR) non
si sia stabilmente e chiaramente normalizzato. Questo può richiedere
anche mesi
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Alcuni pazienti tendono ad avere recidive dopo
infezioni virali
delle prime vie aeree. In tali casi raccomandiamo di
incrementare la
terapia con FANS già durante l’episodio infettivo,
anche se blando.
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Corticosteroidi
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L’instaurazione di terapia corticosteroidea nella
pericardite acuta, con rapido beneficio per il paziente, può essere
molto gratificante. Troppo spesso, però, si inizia una terapia
steroidea, piena di insidie in merito al rischio di recidive, solo
perché si è concluso che i FANS erano “inefficaci”, quando in realtà
erano solo sottodosati. Il nostro centro ha partecipato al più
grosso studio multicentrico, che ha recentemente arruolato molti
casi, pubblicati e non pubblicati, trattati con colchicina; tale
studio ha dimostrato quanto già sospettato in passato, e cioè il
fatto che la terapia con steroidi aumenta il rischio di recidiva e
attenua l’efficacia della successiva terapia con colchicina.
-
6
Anche i recenti trial randomizzati del gruppo
torinese hanno dimostrato che la terapia steroidea aumenta il
rischio di successive recidive.
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7,8
Alcuni autori ritengono che questo sia dovuto alla persistenza di
virus o a reinfezioni virali, fenomeni potenzialmente facilitati dal
cortisone. Va ricordato anche come possa essere quasi impossibile
escludere con certezza un’eziologia tubercolare soprattutto nei casi
più spinosi, e come ovviamente la terapia con cortisone di
pericarditi tubercolari esponga a rischi enormi.
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In accordo con le linee-guida raccomandiamo quindi di
limitare il più possibile il ricorso ai corticosteroidi,1,3-5
utilizzandoli per lo più solo quando si sta profilando la concreta
possibilità di un tamponamento cardiaco; in questo caso utilizziamo
ad esempio
metilprednisolone e.v.
a una dose che può variare
da 40 mg x 2, fino a 250 mg x 4 e.v. al dì.
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Il problema della riduzione del dosaggio dei
corticosteroidi
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È esperienza comune quanto possano essere frequenti e
frustranti le riprese della malattia a seguito di successive
riduzioni del dosaggio dei cortisonici. È impossibile suggerire con
precisione uno schema di riduzione di dosaggio (tapering)
indicato per tutte le situazioni.
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Si può dire comunque che iniziare con 50 mg di
prednisone al giorno, dimettere il paziente, tenere tale dose per
15-20 giorni, con indicazione poi a sospendere tale terapia in 2-3
settimane espone sicuramente a un elevatissimo rischio non tanto di
recidiva, ma semplicemente di ricaduta, vale a dire il ripresentarsi
dello stesso episodio clinico, ancora non superato.
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In generale, nella nostra esperienza e secondo le
linee guida,1,3-5 noi non instauriamo praticamente mai terapia
cortisonica; in caso di terapia con cortisone iniziata da altri,
spesso con recidiva a ogni tentativo di sospensione, raccomandiamo
riduzioni di dosaggio molto graduali.1,3-5 Per tali riduzioni è
conveniente pensare non tanto alla
-
dose giornaliera di cortisone, quanto alla
dose totale settimanale
(ad esempio, prednisone: 25 mg/die, pari a 25 x 7 =
175 mg/settimana).
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Il punto più critico del tapering si raggiunge di
solito intorno a dosi di 10-20 mg/die di prednisone (o in
equivalente prednisonico).
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Giunti a tale livello critico raccomandiamo in
generale riduzioni di 5-10 mg alla settimana, da realizzare ogni 4
settimane. Le riduzioni di dosaggio andranno realizzate in tempi
molto più lunghi di quanto avviene comunemente.1,3-5 In pratica si
dovrà arrivare alla sospensione del cortisone non in settimane, ma
per lo più in mesi, e talvolta in anni. Riduzioni di questo tipo
sono spesso poconote al cardiologo, che potrà utilizzare con
vantaggio la competenza di un immunologo o reumatologo.
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Per quanto riguarda la preoccupazione sugli effetti
collaterali legati al dosaggio del cortisone, va ricordato che tali
effetti sono per lo più legati alla dose totale assunta;
considerando che a ogni recidiva è abitudine ripartire da dosaggi
più elevati, ne consegue che la dose totale di cortisonico assunta
dipende non tanto dalla durata della terapia, ma dal numero delle
recidive con conseguente riaumento della dose.
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Un “trucco” molto utile, che condividiamo con
Soler-Soler,5
è evitare assolutamente un riaumento della dose di steroide in caso
di recidiva. Infatti se il paziente sta assumendo FANS a discreti
dosaggi, colchicina, e sta riducendo molto gradualmente il
cortisone, recidive sono possibili, ma la loro intensità e gravità è
senza dubbio minore degli attacchi iniziali. In questi casi conviene
tranquillizzare il paziente in merito al fatto che questa ennesima
recidiva non cambia la prognosi benigna della malattia e non
richiede ricovero, e insistere con FANS ad alti dosaggi, nell’attesa
che la recidiva in corso si esaurisca, cosa che si verifica di
solito in 7-15 giorni. La dose di steroide non va aumentata, anche
se le previste ulteriori riduzioni vanno momentaneamente sospese, e
se ne riparlerà solo quando il paziente sia tornato a stare del
tutto bene, con rinormalizzazione di VES e PCR.
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Colchicina
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Recentemente sono stati pubblicati due trial
randomizzati controllati
7,8
e uno controllato retrospettivo3 che hanno dimostrato chiaramente
che la colchicina è utile sia nel primo attacco, dove riduce le
recidive dal
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32 a all’11% (NNT 5),7 sia nelle successive recidive,
con riduzione delle ulteriori recidive dal 51 al 24% (NNT 4).8
Non è quindi una bacchetta magica che elimina di colpo tutte le
recidive, ma è sicuramente utile se usata correttamente. In
particolare va aggiunta a FANS e steroidi, e non sostituita ad essi,
e non è efficace se il cortisone viene scalato troppo rapidamente.3,9
È efficace nella vera pericardite acuta ma non in altre malattie
pericardiche (ad esempio, versamenti pericarditi cronici con VES e
PCR normali).9
È preferibile evitare l’uso contemporaneo di macrolidi, che ne
possono aggravare la tossicità.9
La dose consigliata è non più di 1 mg/die, che può essere ridotta a
1/2 mg/die nelle persone che pesano meno di 70 kg o che comunque non
tollerano la dose di 1 mg.3,7-9. Tale dose va continuata
orientativamente per 6- 24 mesi. Gli studi pubblicati segnalano (e
la nostra esperienza lo conferma) che alla sospensione della
colchicina si possono verificare alcune recidive, per cui la durata
della terapia e la sua eventuale sospensione va discussa col
paziente caso per caso.
3,7,8
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Nella nostra esperienza alla dose di 1 mg/die il 20%
dei pazienti lamenta effetti collaterali, prevalentemente
gastrointestinali, e il 15% la interrompe per tali effetti
collaterali. Non è indicata in gravidanza.
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Può essere sicuramente usata negli adolescenti.1
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Altri farmaci
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Esistono isolati case report, relativi alla possibile
utilità di altri farmaci per la prevenzione delle recidive:
azatioprina, methotrexate, ciclosporina, antimalarici,
gammaglobuline ad alte dosi, ciclofosfamide.
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Tali farmaci non possono essere raccomandati come
prima scelta, ma possono essere raramente presi in considerazione
come aggiunte alla terapia di forme particolarmente resistenti e in
cui non si riesce a ridurre il prednisone al di sotto di dosaggi di
sicurezza (10- 20 mg/die).10 Il loro impiego richiede esperienza e
il consenso informato del paziente. Vanno privilegiati i meno
tossici (azatioprina, methotrexate, idrossiclorochina).
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PERICARDITI RECIDIVANTI
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Raccomandiamo che tali pazienti vengano da una parte
rassicurati, dall’altra monitorati strettamente.
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Rassicurazione
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La prognosi delle pericarditi idiopatiche recidivanti
(definite come sopra) è sicuramente buona. In particolare le
recidive, anche frequenti, non intaccano la funzione miocardica né
evolvono in costrizione. Questo è già generalmente riportato nelle
review della letteratura,1,4,5 ed è dimostrato dalla nostra
esperienza (61 pazienti seguiti per 8,3 anni in media), che ha
raccolto la più ampia casistica di questo tipo mai segnalata.
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11
I rarissimi casi segnalati in letteratura a evoluzione costrittiva
non erano in realtà forme idiopatiche recidivanti vere, ma piuttosto
forme tubercolari misconosciute o neoplastiche. Il paziente va
quindi rassicurato, senza ingenerare angosce irrazionali sulla
prognosi a distanza.
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Anche ricorrere a continui ricoveri a fronte di ogni
recidiva trova una scarsa giustificazione, come pure la ricerca
“ossessiva” dell’eziologia, non individuata dopo il primo o il
secondo episodio.
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Inoltre non è razionale raccomandare al paziente, che
normalmente è un adulto attivo, di sospendere ogni sua attività,
obbligandolo a un riposo assoluto e impedendogli ad esempio di
svolgere attività lavorativa o sportiva leggera. Non c’è nessuna
evidenza che proibizioni di questo tipo abbiano alcun effetto nel
limitare le recidive, ma incrementano invece lo sconforto e
l’angoscia del paziente.
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Nessuna delle terapie attuali può garantire di
scongiurare definitivamente la possibilità di recidiva. Tale dato va
comunicato con franchezza al paziente, segnalandogli peraltro che
eventuali recidive in corso di terapia con FANS ad alti dosaggi,
colchicina e tapering lentissimo del cortisone non sono mai
violente, e in molti casi si risolvono in uno stato di malessere e
febbricola della durata di pochi giorni e ben controllabile con
l’aumento dei FANS senza ricorrere all’ospedalizzazione.
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Monitoraggio clinico
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Il paziente con continue recidive necessita di
controlli frequenti, almeno mensili, ma anche più frequenti in
alcuni casi; a ogni controllo noi raccomandiamo di eseguire ECG,
VES, PCR, emocromo con formula. Ogni eventuale riduzione di terapia
andrà eseguita solo in presenza di normalizzazione dei valori di VES
e PCR, e con quadro clinico del tutto quiescente. Non raccomandiamo
invece controlli ecocardiografici troppo frequenti, in quanto
recidive anche violente possono accompagnarsi a versamenti scarsi o
assenti.
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VERSAMENTI PERICARDICI ASINTOMATICI A RISCONTRO
OCCASIONALE
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Le frequenti indagini ecografiche eseguite
attualmente individuano occasionalmente versamenti pericardici
moderati o anche abbondanti, che pongono sempre problemi di
approccio diagnostico ed eventualmente terapeutico. Per la diagnosi
in tali casi vanno eseguiti sostanzialmente gli stessi esami
indicati sopra per le pericarditi acute; di particolare importanza è
l’esclusione della TBC, di neoplasie e dell’ipotiroidismo.
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Una volta escluse tali diagnosi (se possibile), il
versamento rimane “idiopatico”, e come tale viene seguito nel tempo.
Quest’area è ancora più “grigia” delle altre, ed esiste un solo
studio pubblicato da autori spagnoli12 che consigliano il seguente
approccio:
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• pericardiocentesi evacuativa appena il versamento
diventa sintomatico anche modestamente e in modo aspecifico: ad
esempio, precordialgie o affanno;
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• pericardiectomia parziale in caso di recidiva.
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In tale iter non è stata mai individuata una
possibile eziologia sfuggita alla prima evoluzione, e la prognosi
dei pazienti è rimasta ottima.
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Noi seguiamo un approccio più conservativo. Data la
scarsissima utilità della pericardiocentesi a scopo diagnostico,
come confermato dalla nostra esperienza, ma anche dagli stessi
autori spagnoli,
-
13
noi consigliamo di riservarla ai casi con tamponamento o a quei casi
in cui gli accertamenti eseguiti facciano sospettare una genesi
neoplastica.
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Nessuna terapia sembra efficace nel trattare tali
versamenti, anche se è stato segnalato qualche raro caso che ha
risposto alla colchicina.
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PERICARDIOCENTESI
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La pericardiocentesi è eminentemente
una procedura terapeutica,
in quanto il potenziale diagnostico fornito dall’analisi del liquido
raramente aggiunge dati significativi all’identificazione eziologica
e ancor meno alla terapia.13 Comunque, visto il minimo impatto
economico e organizzativo, è opportuno, almeno alla prima procedura
in un paziente con eziologia ignota, inviare campioni per l’analisi
batteriologica
-
(in particolare ricerca del BK), biochimica e
citologica.
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Indicazioni a pericardiocentesi
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La pericardiocentesi è la procedura in grado di
salvare la vita a una persona con tamponamento cardiaco (livello di
evidenza B, Classe
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I) o minaccia di tamponamento (tachicardia,
ipotensione, segni di ipertensione venosa).
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In assenza di compromissione emodinamica la
pericardiocentesi raramente è indicata per indagare le cause del
versamento e meglio impostare la terapia nei seguenti casi (livello
di evidenza B, classe IIa):
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• Versamenti che implicano uno scollamento dei
foglietti pericarditi superiore ai 20 mm, valutato in diastole all’ecocardiogramma.
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I segni ecocardiografici di compressione della cavità
striale e/o ventricolare destra possono essere di aiuto decisionale
in casi dubbi (versamento moderato, in concomitanza a quadro clinico
minaccioso).
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• Necessità di procedure diagnostiche aggiuntive:
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– esame chimico, citologico e colturale del liquido
pericardico;
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– pericardioscopia, con eventuale prelievo bioptico.
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Le controindicazioni sono:
-
• Assoluta: dissecazione aortica.
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• Relative:
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– coagulopatia non trattata;
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– terapia anticoagulante;
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– piastrinopenia <50.000/mm3;
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– presenza di versamenti pericardici piccoli,
posteriori, saccati.
-
• Il drenaggio chirurgico può essere preferibile in
presenza di emopericardio traumatico acuto o pericardite purulenta.
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Pericardite e versamento pericardico
863
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La pericardiocentesi ha un’elevata probabilità di
successo nei pazienti con versamenti pericardici anteriori che
implichino uno scollamento dei foglietti superore ai 10 mm, mentre
la probabilità di successo è inferiore in caso di versamenti di
minore entità o posteriori.
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La pericardiocentesi può essere effettuata sotto
guida radiologica nel laboratorio di emodinamica, con monitoraggio
elettrocardiografico. L’effettuazione della procedura sotto
controllo radiologico o ecografico garantisce un successo superiore
rispetto alla procedura d’emergenza effettuata alla cieca. La
tecnica di monitorizzare l’elettrocardiogramma sull’ago di puntura
non dà adeguata sicurezza.
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Dal punto di vista procedurale, alcuni effettuano un
cateterismo destro simultaneo al drenaggio pericardico, per
monitorizzare la pressione nelle cavità del cuore destro, ma tale
procedura non è indispensabile.
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Tecnica di esecuzione della pericardiocentesi
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L’approccio
sottoxifoideo
è quello più comunemente usato: si utilizza un ago
lungo, di diametro 18 gauge, dotato di mandrino, diretto verso la
spalla sinistra, con un’inclinazione di 30 gradi rispetto alla cute.
Questo tipo di approccio è extrapleurico e consente di evitare la
puntura delle arterie coronariche, della mammaria o dei vasi
pericardici. Periodicamente, durante l’ingresso dell’ago, si
effettuano delicate aspirazioni con la siringa, per verificare il
raggiungimento del sacco pericardico.
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Se il liquido aspirato è emorragico, è consigliabile
iniettare pochi millilitri di mezzo di contrasto sotto controllo
radiologico: se esso si stratifica inferiormente, si ha la certezza
che l’ago è in sacco pericardico.
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Si inserisce quindi, attraverso l’ago, una guida con
punta a J nella cavità pericardica, si fa scorrere sulla guida un
precursore dilatatore, indi si introduce sulla guida un catetere
“pig tail”, dotato di numerosi fori e si rimuove la guida per
consentire l’aspirazione.
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Se al controllo radiologico si constata che la guida
è intracardiaca, cioè ha trapassato la parete ventricolare destra,
non si deve introdurre il catetere sulla guida. Si deve sfilare la
guida e si può fare un secondo cauto tentativo di puntura
ab initio.
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Se si è accidentalmente introdotto il catetere sulla
guida in cavità ventricolare destra, lo si deve lasciare in sede,
inviando il paziente alla cardiochirurgia.
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Se si verifica un emopericardio e si ha la certezza
che non esiste un quadro infettivo, è indicato reinfondere per via
sistemica il sangue drenato.
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Il
monitoraggio ecografico
è una tecnica alternativa che consente la
pericardiocentesi al letto del malato, tuttavia con minori garanzie
di sterilità. Un aspetto particolarmente utile dell’ecocardiogramma
dall’approccio sottoxifoideo, quale che sia la tecnica scelta per la
pericardiocentesi, consiste nella possibilità di esaminare l’entità
dello scollamento pericardico anteriore al ventricolo destro, lungo
il percorso che sarà seguito dall’ago per raggiungere il sacco
pericardico.
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L’ecocardiogramma è particolarmente utile nei casi di
versamento saccato postoperatorio (situazione in cui una totale
assenza di versamento in sede anteriore può far propendere per un
drenaggio chirurgico o toracoscopico).
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L’evacuazione del pericardio deve evitare di
rimuovere più di 1 litro di liquido, al fine di non provocare una
dilatazione acuta del ventricolo destro, causata dalla rapida
decompressione.
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Le possibili gravi
complicanze
della pericardiocentesi sono la lacerazione e la
perforazione miocardica, oltre all’embolia gassosa, allo
pneumotorace, alle aritmie o la puntura di visceri o vasi
addominali;
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rara l’infezione.
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Nelle prime ore successive alla pericardiocentesi il
catetere può essere utilizzato per la somministrazione di farmaci in
sacco pericardico, purché sia rispettata scrupolosamente la
sterilità.
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Il paziente può essere mobilizzato non appena le
condizioni cliniche lo consentano.
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Il catetere viene generalmente lasciato in sede, in
aspirazione chiusa, per 1-3 giorni. Può essere rimosso quando la
quantità di liquido che fuoriesce dal catetere è pressoché nulla,
previa documentazione ecografica della regressione del versamento.
Qualora non fuoriesca liquido dal catetere e il versamento
pericardico permanga cospicuo, si deve pensare all’occlusione del
catetere di drenaggio: in questa situazione si può provare a
effettuare un’aspirazione manuale con siringa, per cercare di
sbloccarlo; non si deve mai iniettare liquido di lavaggio, per il
rischio infettivo della manovra. Un catetere ostruito va rimosso e
sostituito da un nuovo catetere mediante nuova puntura, se è
necessario. Nelle condizioni abituali di degenza, in corsia medica o
cardiologica, è sconsigliabile mantenere il catetere oltre i 3-4
giorni.
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